mercoledì 25 febbraio 2009

Il postino

Non si tratta del postino di neruda, né tantomeno di quello con la faccia di Jack Nicholson che suonava sempre due volte, bensì più prosaicamente del postino italiano.
Ebbene, incrociando un postino nell'androne del palazzo, o meglio, una postina piacente, direi carina, che mi aveva citofonato per firmare, ho pensato a come è cambiato il loro ruolo, la loro figura.
Da personaggio positivo e familiare, cui si apriva sempre la porta di casa e alle volte si invitava a prendere un caffè o una tazza di brodo caldo contro i freddi invernali, oggi, per quanto piacente o carina, il postino/a è una figura negativa, che porta guai nella maggior parte dei casi.
Quando bussa alla porta è un uccello del malaugurio, un corvo, un gufo che spezza la fragile pax familiare e irrompe con la sua inconsapevole negatività direttamente nel centro del salotto, dopo che la notifica di una multa o di una cartella pazza è stata effettuata.
La gente - me compreso - li fugge come il peggiore dei mali, e sono certo che, poverini, si beccano sostanziose e quotidiane razioni di improperi.
Ultimo ingranaggio del potere amministrativo, e quindi politico, il postino contemporaneo a contratto trimestrale è la trincea della pervasività assillante dello Stato e del Mercato messi insieme.
Una vera e propria iattura, insomma.
Una volta un ex amico un po' anarchico mi disse che per bloccare questo Sistema iniquo e antidemocratico era perfettamente inutile ammazzare politici o giuslavoristi, perchè è come voler combattere il tumore solleticando la metastasi.
Più che sufficiente invece eliminare postini e ufficiali giudiziari: chi accetterebbe un lavoro così a rischio, dopo che cento, mille dei loro sono stati selvaggiamente picchiati in ogni quartiere di tutte le città d'Italia?
Le notifiche avverebbero a mezzo esercito? Oppure a mano armata?
A quel punto, però, la democrazia avrebbe raggiunto l'omega point, con tutte le conseguenza del caso.
E come dargli torto.

martedì 24 febbraio 2009

il vangelo secondo De Luca

Che un esponente politico salernitano possa aspirare alla carica di presidente della Campania è del tutto normale. In quasi quarant'anni di vita regionale solo tre volte questo ruolo è stato ricoperto da un non napoletano. Che il Pd possa candidarlo è oggi del tutto probabile. Che possa poi aspirare a vincere brandendo la bandiera anti-napoletana è un ulteriore segnale dell'impazzimento della politica regionale e nazionale.
Stiamo parlando di Vincenzo De Luca.
Dopo l'uscita di scena di Nicolais a seguito dello scontro con la Iervolino, a Veltroni non resta, tra i suoi fedelissimi, che il sindaco di Salerno. Si spiega così il paradosso di questi giorni: dopo critiche feroci a Bassolino è sembrato quasi che il segretario del Pd facesse il tifo perché il governatore restasse al suo posto, sia perché la sua leadership non può sopportare la seconda sconfitta dopo quella subita in Abruzzo, sia perché De Luca è rinviato a giudizio per associazione a delinquere, concussione e truffa e il processo non si svolgerà in tempi brevissimi.
In questo momento, dunque, i principali oppositori del governatore bassolino, cioè Veltroni e De Luca, non sono realmente interessati alle sue dimissioni.
E allora parliamo di De Luca, rompendo questo cono d'ombra che avvolge le vicende politiche non napoletane. Che razza di regionalismo è il nostro se i giornali si interessano solo della politica napoletana e quasi niente della «quotidianità» politica e istituzionale delle altre province? Il napolicentrismo esiste sicuramente nel lavoro dei media, che avendo un pubblico potenziale di tre milioni di abitanti ruotanti su Napoli, non ritengono di dare spazio alle vicende degli altri territori, se non confinandole nelle apposite cronache provinciali, tranne i fatti di sangue più clamorosi.
Vivendo in provincia di Salerno e avendo operato quasi sempre a Napoli spesso mi trovo a constatare che di ciò che fa notizia a Salerno non si sa niente a Napoli, e invece ciò che succede a Napoli lo sa tutta la Campania e l'Italia. De Luca ha prima sofferto di questo particolare aregionalismo dell'informazione e poi ne ha approfittato, vedremo come.

Tutto è cominciato nel 1993. È la stagione dei sindaci, e Bassolino, Bianco e Orlando sono famosissimi. Lui comincia a definirli le «madonne pellegrine », esasperato dal successo che hanno in giro per l'Italia. Le grandi città dominano la scena, e le piccole e medie non hanno grande visibilità. Per De Luca le difficoltà di imporsi sono duplici. Non può giocare sulla «discontinuità» con il sistema di potere precedente, così come possono tranquillamente fare tutti i nuovi sindaci. Lui è stato vicesindaco durante il dominio di Carmelo Conte e Salerno non è una città allo sfascio, perché le amministrazioni precedenti non hanno amministrato così male come a Napoli. E soprattutto non può tuonare contro «quelli di prima», perché lui è stato uno dei più autorevoli e influenti «uomini di prima». Appartiene al passato regime, confuso con i vituperati socialisti, e dunque deve inventarsi qualcosa perché nel 1993 va al ballottaggio di misura e vince di misura. D'altra parte Salerno è una città media, schiacciata dalla presenza di Napoli e dall'opinione che ha nel mondo, di cui soffre come quasi tutti i salernitani che fanno della città partenopea paragone e vincolo della loro storia.
Come risolvere, dunque, il problema di una visibile discontinuità all'interno della città, e di una forte identità nei confronti del resto del mondo? La costruzione del mito di sindaco faber non è sufficiente. Il disegno urbanistico immaginato dai socialisti è notevole (criticabili sul piano clientelare e affaristico, i «contiani» hanno idee chiare sul futuro di una città di mare di medie dimensioni) e lui può tutt'al più diventarne l'esecutore, può completarlo non certo passare per l'ideatore. Ci vuole dell'altro.
Il problema lo risolve mettendosi politicamente e culturalmente in sintonia con il centrodestra salernitano, prendendo le distanze dalle tradizioni e dai riferimenti culturali e sociali della sinistra. Tutti i temi cari alla destra salernitana vengono da lui sapientemente inalberati e seguiti, a partire dall'antipolitica e dall'antinapoletanismo viscerale, e più recentemente dalle crociate contro gli immigrati («li prenderemo a calci nei denti e li butteremo a mare ») e le prostitute, dotando le guardie comunali di manganelli («prima che ci scappi un nostro morto »). Su questo costruisce la sua nuova immagine (lui che per il suo estremismo rivoluzionario veniva definito Pol Pot nel vecchio Pci) utilizzando benissimo una tv locale dove tiene una trasmissione settimanale a cui, crollasse il mondo, non è mai mancato in 15 anni. Solo Cito, il fantasmagorico sindaco di Taranto, poteva competere con lui per l'uso del mezzo televisivo. Sul piano economico diventa un accorto difensore della rendita immobiliare e apre una stagione d'oro per i costruttori e per i grandi proprietari di suoli e di case. Trasforma spregiudicatamente la vocazione industriale della città in commerciale, tenendo in mano con due fedelissimi da un lato l'Asi e le aree dimesse e dall'altro lo sportello unico dove si autorizzano le nuove destinazioni dei suoli. E paradosso di una città resa più vivibile è la notevole perdita di abitanti (ben 14 mila) dovuta a un innalzamento dei prezzi delle case che non ha eguali in Campania. Lega a sé le famiglie storiche dei costruttori edili di Salerno, che prima dividevano i loro favori tra la Dc, il Psi e anche il Msi, e che ora si rivolgono esclusivamente a lui. Il potere politico, economico salernitano diventa potere monocratico, una piramide con un sindaco-faraone ai vertici. Avversari-amici La destra ufficiale salernitana ha fatto, nel corso di questi anni, buon viso a cattivo gioco (An lo ha definito un «fascista in camicia rossa») e non ha mai svolto una opposizione degna di questo nome, perché poi il suo elettorato torna all'ovile nelle elezioni politiche. Il senatore Paravia, eletto in quota An, è stato da presidente di Confindustria il suo principale sostenitore, e Cirielli, candidato alla Provincia per il Polo, si alzò in Parlamento a difenderlo, dopo che la Procura di Salerno ne aveva chiesto l'arresto e il gip per tre volte l'aveva negato, sostenendo la non utilizzazione delle intercettazioni telefoniche che lo riguardavano (ben 250). Immaginate cosa sarebbe successo se a Napoli sull'inchiesta Romeo gli esponenti del Polo avessero difeso la Iervolino? Politica, ideologia, antropologia Se la discontinuità la risolve mettendosi in sintonia con i temi cari al centrodestra, De Luca si dà una forte identità investendo tutte le sue risorse nel cavalcare gli umori antinapoletani, fino a costruirci non solo una strategia politica, un'ideologia e perfino un'antropologia. Attacca Bassolino quando è ancora il sindaco più amato dagli italiani non per preveggenza, ma solo perché avrebbe attaccato anche il Papa se lo avessero eletto primo cittadino di Napoli. E la prima vera occasione gli viene fornita dalle elezioni europee del 1999. I candidati scelti dai Ds sono Giorgio Napolitano come capolista e Biagio de Giovanni per la riconferma. Non c'è spazio per De Luca, che ci teneva molto. E allora il nostro va in escandescenze, definisce l'attuale Presidente della Repubblica «un abatino, che non si è mai stentato niente» e de Giovanni con epiteti irripetibili. Bassolino e il partito di Napoli, che avevano sostenuto quelle indicazioni, vengono sottoposti a un fuoco di improperi, che trovano successivamente svolgimento in un vero e proprio vocabolario sulla immoralità e inaffidabilità dei napoletani. L'anno dopo ci sono le elezioni regionali. De Luca pensa di candidarsi come presidente. Deve lasciare il Comune perché si avvicina la scadenza del secondo mandato e le titubanze di Bassolino sembrano offrirgli una possibilità. Gambale e una parte della Margherita lo propongono ufficialmente. Per qualche settimana lui ci crede e corteggia insistentemente De Mita. Poi Bassolino decide, e allora diventa una furia. Durante la campagna elettorale Bassolino e Rastrelli sono contemporaneamente a Salerno e lui preferisce con ostentazione incontrare Rastrelli e disertare la manifestazione del candidato del centrosinistra. Da quel momento in poi il rancore diventa linea politica, mischiando all'avversione per la persona l'avversione per la città di cui Bassolino è stato sindaco. E dall'ideologia antinapoletana (Salerno ostacolata nelle sue aspirazioni di crescita dal parassitismo di Napoli) si passa all'antropologia antinapoletana, il cui prototipo è un manager scelto per una Asl di Salerno, un «cafone arricchito » che si presenta con una catenina appariscente al collo e con i sandali. Qualcosa in più di un leghismo in salsa salernitana.
Non solo Napoli si sostituisce a Roma come ladrona, ma trasforma la città partenopea in un caravanserraglio abitato da una etnia politica e sociale fatta di cafoni, imbroglioni, plebei, degna patria di camorristi e delinquenti. Scontro «etnico» anche contro De Mita De Luca spinge il contrasto politico in scontro «etnico» anche nei confronti di De Mita, che lusinga nel periodo di contrapposizione dell'uomo di Nusco a Bassolino per poi osteggiarlo nelle primarie così fortemente da identificare negli avellinesi degli zotici montanari colonizzatori. E mettendo in difficoltà un'encomiabile classe dirigente salenitana che ha lavorato sull'asse Avellino-Salerno per il comune sviluppo, a partire dalla collocazione fisica dell'Università, a metà strada tra i due capoluoghi. Alla fine quest'impostazione non solo alimenta semi permanenti di discordia, di razzismo intraregionale, ma produce danni economici consistenti, come nel caso della gestione dell'aeroporto di Pontecagnano che, per evitare la normale alleanza con l'odiata «napoletana» Gesac che gestisce l'aeroporto di Capodichino, è stata affidata a una società che ha portato alla chiusura dello scalo dopo pochi mesi dall'apertura. Ciò che l'economia impone e i tempi richiedono (un asse Salerno-Avellino per ricongiungersi con Bari, e un asse Salerno-Napoli per ricongiungersi con Roma) viene ostacolato da un pansalernismo aggressivo, contrario a ogni logica di sana politica e di sana economia, negazione del nostro già fragile regionalismo. Su questa linea De Luca ha avuto sempre una specie di salvacondotto prima da D'Alema, poi da Fassino e infine da Veltroni e Bettini, libero di dire e fare quello che voleva, anche cose lontanissime da una cultura di sinistra, a condizione di tenere viva la polemica contro il comune nemico Bassolino. Un feudatario locale che si allea con Roma per contrastare il grande feudo di Napoli. A nessun altro dirigente locale di provenienza Pci è stato concesso tanto, pur avendo egli cambiato posizioni numerosissime volte, sicuro che la storia deve coincidere con le sue aspirazioni e quando non lo fa deve essere corretta. La ricerca affannosa dell'efficienza Contrario al Pd (e alle primarie), De Luca ne è diventato uno dei massimi dirigenti; contrario ai partiti e alla «politica politicante» (lui che ha svolto sempre e solo il lavoro di funzionario di partito e di uomo delle istituzioni) se n'è fatto a Salerno uno a sua immagine e somiglianza, senza spazio per il più minimo dissenso; contrario alle discariche e ai termovalorizzatori (andava alle manifestazioni contrarie nel periodo più critico della crisi dei rifiuti con la fascia tricolore) ne è diventato in pochi giorni il più appassionato sostenitore quando ha pensato di utilizzare le difficoltà di Bassolino e degli altri nel realizzarli; contrario all'uso delle intercettazioni nel suo processo (piene di volgarità da fare impallidire anche i più scafati uomini di potere) si scaglia contro i politici intercettati nella vicenda Romeo dicendo che lui, al loro posto, avrebbe chiesto scusa ai napoletani (per essere credibile avrebbe fatto prima a chiedere scusa ai salernitani).
Se a Napoli Bassolino o la Iervolino avessero come loro segretario particolare un presidente di una società mista o di una municipalizzata, cosa si sarebbe scritto sui giornali? A Salerno avviene tranquillamente. Se metà degli organismi dirigenti del partito napoletano fosse rappresentata da funzionari, dirigenti e ammini-stratori di società miste, municipalizzate o società partecipate dal Comune o dalla Regione, immaginiamo cosa avrebbero scritto i giornali? E se nelle società miste le assunzioni si facessero senza concorso ma solo per chiamata dalle agenzie di lavoro interinale, come si dovrebbe definire ciò? E se in aggiunta venissero spesso pescati tra gli assunti parenti di politici legati a De Luca o di amministratori di altre società comunali, come si qualificherebbe ciò? Ma i grandi giornali napoletani sono distratti, anzi la ricerca affannosa dell'efficienza da contrapporre a Napoli fa spesso sorvolare su alcuni dettagli morali. Che guaio per la democrazia quando si pone l'alternativa tra onestà immobile e dinamismo spregiudicato! In vetta tra i primi cittadini Oggi De Luca è al quarto posto in Italia nella classifica dei sindaci più amati dai loro concittadini (dopo Chiamparino, Tosi e Scopelliti), aspira alla guida della Regione e sta tenendo in giro per la provincia di Napoli diverse iniziative pubbliche in cui chiama a raccolta il contado contro la città. Nelle solide democrazie con la propria candidatura inizia la fase in cui non si possono più tenere scheletri nell'armadio. Mi piacerebbe, ad esempio, che alcuni intellettuali napoletani che hanno chiesto insistentemente la pubblicazione del nastro registrato del colloquio domenicale tra Iervolino, Nicolais e Iannuzzi, con la stessa foga chiedessero anche la pubblicazione delle intercettazioni dell'unico ex deputato campano a cui la «politica politicante» ha salvato (finora) la carriera. E torno alla domanda iniziale: vedremo candidato alla guida della Regione un politico che ha costruito tutta la sua ascesa sulla contrapposizione a Napoli? È questo il regionalismo del Pd? Dopo aver visto il ministro-ombra per le riforme istituzionali proporre un'alleanza con la Lega, perché meravigliarsi che in Campania sia uno stesso esponente del Pd a farsi leghista?

fonte: corriere del mezzogiorno del 26 gennaio 2009

mercoledì 18 febbraio 2009

dal Vangelo secondo Luca: 16,1-13

Arrivare in una posizione di comando è un'aspirazione che prima o poi coglie tutti, dunque inutile vergognarsene. Come ogni malattia che non prevede cure, la voglia di affermarsi alimenta se stessi senza pentimenti nella propria personale conquista della "posizione".
Ma il potere finisce quasi sempre per avere il suo inevitabile appeal, e poichè a nessuno fa schifo avere ragione, non c'è modo migliore per averla che quella di poterla imporre proprio sulla base della posizione che si occupa o dei rapporti di forza che si stabiliscono.
Godere del potere è una sensazione che una volta provata non si può dimenticare, così tanto vale puntare a godere il più a lungo possibile, costi quel che costi, alla faccia di quanti dovranno pagare dazio per la nostra soddisfazione: per uno che gode, ci sono molti che dovranno soffrire.
Dunque il potere, volenti o nolenti, contribuisce in maniera rilevante a rendere plausibile la sindrome della "carogna di rispetto", la coltiva e la razionalizza: chi comanda non ha tempo di andare per il sottile, di farsi degli scrupoli, e se c'è qualcuno che vuole convincerrti del contrario quello è il più pericoloso. Ogni tentennamento sarebbe infatti un segno di debolezza, metterebbe sul chi va là gli obbedienti recalcitranti, alimenterebbe tentazioni alla defezione, finirebbe con il legittimare i mediocri consentendo a tutti di sperare; ma la speranza è un vizio che produce aspetattive, e queste prima o poi pretenderanno di essere soddisfatte. Mai lasciare spazio alle speranze.
Il potere, com'è noto, non può essere di tutti, per questo è essenziale partire avvantaggiati. Chi lo ha detto che bisogna essere corretti alla partenza? In fondo, essere "figli di ..." non è colpa di nessuno, si nasce senza volerlo, tanto vale approfittarne. Qui, tanto per esser chiari, non è questioni di giustizia o di altre malinconie del genere, ma è solo semplicemente questione di culo, che, come tutti forse sanno, in prospettiva non sarà mai un fattore democratico, mentre è assolutamente neutro nella sua distribuzione originaria.
Per i figli nati bene c'è sempre unm paradiso. Gli altri? Chi se ne frega degli altri! E' vero che qualcuno senza storia mastica voglie che non gli competono, ed è anche probabile che qualcuno ce la faccia, è già accaduto. Ma c'è pronta una compensazione tra i predestinati e alla lunga si converge; e così, chi impropriamente afferma se stesso alzando la testa senza pudore finirà quesi sempre per somigliare - in anticipo - a quelli che una storia ce l'hanno già in proprio. In fondo, è un piacere scoprire qualcuno che afferma il potere come unica ragione di vita.
Il mondo corre, tutti si affrettano, ognuno ha la sua chance, l'agitazione è generale, e i cammini alle volte si intrecciano, convergendo oppure ostacolandosi tra loro.
Tu sei lì, con quella sensazione di impotenza che deriva dal fatto di non avere risorse pregiate da giocare; un curriculum, il tuo, senza né arte né parte, grigio come la giornata che si profila. Qualche lavoretto di supporto, per carità fatto con diligenza, è roba da poco, non si può andare al mercato con merce così striminzita. Almeno parlassi bene l'inglese! Tua madre te lo aveva detto, quando le estati erano ancora lunghe e libere, di profittare per impararlo; ma tu avevi ben altro per la testa, e come al solito sei in ritardo. Si, è vero, biascichi qualcosa, ma nel complesso fai ridere.
Tutto ciò che è a buon mercato quasi sempre non vale niente, per questo non dovrebbe essere concesso di sperare a chi non ha i fondamenti per guardare un futuro migliore, potrebbero crearsi false aspettative e aumentare la delusione per un futuro che non verrà mai, o che non verrà come si era immaginato.
Come conciliare dunque la propensione al comando con una condizione oggettivamente svantaggiata? Come canalizzare la frustrazione al di là di un'assemblea condominiale o di un sorpasso azzardato dopo un'ora di traffico inutilmente bloccato? Quale strada imboccare per arrivare a soddisfare i propri inattuali progetti senza lasciarsi prendere dallo sconforto per il deprecabile punto di partenza cui il destino ci ha costretti?
Se la spinta ad arrivare è tale da non poter essere controllata, soprattutto per via dell'ambizione o dello spirito di rivalsa che tormenta in seguito a tutte le umiliazioni subite, è dunque giunto il momento di aiutarsi con i classici, che sono sempre un'autorevole fonte d'ispirazione.
E cosa c'è di più classico del Vangelo? Avendo una risposta per ogni tipo di problema, non ci resta che cercare e trovare quella che fa al caso nostro, così che l'occhio finalmente è rapito dalle illuminanti suggestioni della Parabola del servitore infedele (Luca: 16,1 -13).
Da questa parabola abbiamo imparato che:
1) c'è sempre un momento di crisi nella vita di ogni uomo, basta non farsi trovare impreparati;
2) ciascun momento dipana sempre un rapporto privilegiato con qualcuno che si fida di noi;
3) per essere apprezzati, talvolta bisogna barare.
Incredibile, ma è così.