giovedì 29 maggio 2008

Dio, Eva e il serpente

Noi percepiamo innanzitutto l'anomalia del fatto bruto di esistere, e solo in seguito quella della nostra situazione specifica: lo stupore di essere precede lo stupore di essere uomo. Eppure il carattere insolito del nostro stato dovrebbe costituire il dato primordiale della nostra perplessità: è meno naturale essere uomo che essere e basta. Questo, noi lo sentiamo d'istinto, e da questo deriva la voluttà che proviamo tutte le volte che ci distogliamo da noi stessi per identificarci con il sonno beato degli oggetti.

La maledizione che ci grava addosso pesava già sul nostro antico progenitore, molto prima che egli si volgesse verso l'albero della conoscenza. Insoddisfatto di sé, lo era ancor più di Dio, che egli invidiava senza esserne consapevole; lo sarebbe divenuto grazie ai buoni uffici del tentatore, coadiutore, piuttosto che autore, della sua rovina.
«Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perchè certamente moriresti». L'avvertimento dall'alto si rivelò meno efficace dei suggerimenti dal basso: migliore psicologo, il serpente trionfò.

Prima viveva nel presentimento del sapere, in una scienza che ignorava se stessa, in una falsa innocenza, propizia all'esplodere della gelosia, vizio generato dal contatto con chi è più fortunato di noi. Ora, il nostro progenitore frequentava Dio, lo spiava ed era da lui spiato: non poteva derivarne nulla di buono.
L'uomo, del resto, non chiedeva che di morire: volendo eguagliare il suo creatore nel sapere anzichè nell'immortalità, non aveva alcun desiderio di raggiungere l'albero della vita, non gli interessava affatto; e di questo Dio parve rendersi conto, giacchè non gliene proibì nemmeno l'accesso: perchè temere l'immortalità di un ignorante?
Se l'ignorante avesse mirato a entrambi gli alberi e fosse entrato in possesso sia dell'eternità sia della scienza, allora si che tutto sarebbe cambiato.

Mettendo l'albero della conoscenza in mezzo al giardino, vantandone i meriti e soprattutto i pericoli, Dio commise una grave imprudenza: anticipò il desiderio più recondito della creatura. Proibirgli l'altro albero, quello della vita, sarebbe stata una tattica migliore.
Se non lo fece, fu perchè sapeva senza alcun dubbio che l'uomo, aspirando subdolamente alla dignità di mostro, non si sarebbe lasciato sedurre dalla prospettiva dell'immortalità, troppo accessibile, troppo banale: d'altronde, non era essa la legge, lo stesso statuto del luogo in cui egli si trovava, il paradiso?

La morte invece, ben altrimenti pittoresca, e investita dal prestigio della novità, poteva incuriosire un avventuriero, disposto a rischiare per essa la propria pace e la propria sicurezza. Pace e sicurezza abbastanza relative, è vero, poichè se pur nel cuore dell'Eden il promotore della nostra razza doveva avvertire un certo malessere; non si riuscirebbe a spiegare altrimenti la facilità con cui cedette alla tentazione.

Vi cedette? Piuttosto la invocò. In lui si manifestava già quell'inattitudine alla felicità, qiell'incapacità di sopportarla che tutti abbiamo ereditato. Egli l'aveva sottomano, poteva farla sua per sempre; la respinse, e da allora la inseguiamo senza ritrovarla; e se anche la ritrovassimo, non ci adatteremmo ad essa meglio di allora. Cos'altro aspettarsi da una carriera iniziata con un'effrazione alla saggezza, con un'infedeltà al dono d'ignoranza che il creatore ci aveva elargito? Precipitati nel tempo del sapere, fummo simultaneamente dotati di un destino, giacchè non v'è destino se non fuori del paradiso.

E. Cioran - La caduta nel tempo


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