martedì 10 marzo 2015

Sulla disobbedienza civile

Un sistema politico è tanto più democratico:
- quando interroga frequentemente i cittadini sulle decisioni importanti da prendere;
- quando i titolari del potere ruotano con frequenza.

Chi governa, sia in modo legittimo che illegittimo, tende in ogni tempo ed in ogni luogo a non cederlo più: si tratta di un comportamento istintivo analogo a quello che spinge ogni uomo a conservare una rendita di posizione, spesso anche a danno di altri. Coloro i quali invece godono dei vantaggi del potere, cercano di giustificare il loro monopolio dell’autorità con diversi argomenti: che il lungo esercizio di responsabilità del comando accresce le competenze; che eliminare gli esperti rischia di mettere al comando persone inesperte.
L’esperienza storica insegna invece che una lunga, ininterrotta permanenza al potere di persone o formazioni politiche sempre uguali produce corruzione, arroganza degli amministratori, omertà clientelare, ineguaglianza e servitù dei cittadini.
Gli espedienti con i quali chi comanda riesce abitualmente a conservare e consolidare il potere, come fosse un bene privato, riguardano: distribuzione di favori leciti e illeciti finalizzata alla costruzione di un sistema di elettori costituito da “protetti e protettori”; uso spregiudicato dei mezzi d’informazione per svalutare-isolare-zittire i pretendenti al ricambio anche attraverso la manipolazione di informazioni decisive; utilizzo strumentale dei quozienti per attribuire a maggioranze relative “premi” così da trasformarle in maggioranze assolute.
Come devono comportarsi i cittadini quando coloro che governano rispettano solo formalmente la Costituzione e le leggi vigenti mentre in realtà le utilizzano per consolidare e prolungare la loro permanenza al potere?
In tutti gli ordinamenti liberi – anche se alle volte non costituzionalmente scritto - viene generalmente riconosciuto il diritto dei cittadini a resistere ad una costrizione illegittima.

Nel caso di un “colpo di stato” il “diritto di resistenza” consente ai cittadini anche l’uso della violenza, poiché contro una esplicita oppure mascherata sospensione dell’ordine costituzionale è lecito l’uso della forza.
Diverso il caso nel quale, come anzidetto, l’illecito comportamento non è formale, ossia apparentemente interno all’alveo costituzionale, ma sostanzialmente fuori da quest’alveo.
Per prima cosa va detto che un uomo libero non deve rassegnarsi a sopportarlo: sacrificare la propria dignità a un presunto dovere di sopportazione delle angherie altrui per tutelare “l’ordine sociale” o “il bene supremo della pace” è una scelta foriera di ulteriori e sempre più gravi ingiustizie.
Esclusa la possibilità di ricorrere all’uso della forza, non trattandosi di un colpo di mano, restano da individuare e percorrere misure pacifiche in grado di destabilizzare il potere costituito, in modo da costringere il tiranno mascherato a ripristinare anche la legalità sostanziale, non solo quella formale.
Fin dal secolo scorso queste misure sono state riassunte e individuate nella c.d. “disobbedienza civile”.

Il vocabolo “disobbedienza” indica un comportamento indirizzato a disattendere degli obblighi ai quali “formalmente” bisognerebbe ottemperare.
Tale comportamento non contesta la procedura con cui l’obbligo è stato stabilito bensì il contenuto dell’obbligo stesso. Non si contestano dunque le procedure istituzionali, e quindi le istituzioni in sé, ma si vuol far capire, contestandone esclusivamente il contenuto, che l’obbedienza passiva non è virtù di uomini liberi, e che quando le istituzioni – per loro imperfezione intrinseca o per disonestà di chi le comanda – non garantiscono i diritti dei cittadini diviene un dovere morale non obbedire.
Mostrare quindi a chi comanda la concreta possibilità di perdere il potere per effetto di una rivolta dei cittadini.
Va infatti qui specificato che “demo-crazia” è potere del popolo, distinto cioè da chi governa il popolo medesimo, per cui quando il governo opprime il suo popolo è dovere morale disobbedire e insorgere, con la forza nei casi estremi, con mezzi pacifici negli altri. Il patto tra cittadini e governo, se pur sottoscritto “liberamente”, non può e non deve produrre effetti imprevisti o addirittura perversi senza veder inficiata la propria validità ed efficacia.
Da qui, la “disobbedienza” come strumento pacifico di sollecito al cambiamento di regole ingiuste.
Con l’aggettivazione “civile, poi, vengono in luce due condizioni: la prima è il carattere non aggressivo, poiché civile è nettamente distinto sia da “militare” che da “incivile”; la seconda che l’azione di disobbedienza è collocata nella sfera delle prerogative del cittadino: ciascun cittadino ha infatti il diritto di partecipare alla statuizione degli obblighi giuridici che lo riguardano.
La coesistenza politica non può più essere basata su patti di fedeltà o giuramenti a vita, eterni, ma su contratti a tempo determinato e destinati ad essere rinegoziati oppure a sciogliersi svincolando i contraenti. Questo genera un senso comune molto forte in quanto alla base del rapporto vi è la libertà di scelta: stare insieme oppure no.
La possibilità di scegliere è il cardine della democrazia; viceversa, se non c’è scelta non vi è democrazia.
Si tratta di una prerogativa inalienabile di ciascun individuo quando accetta la volontà della maggioranza scegliendo di convivere con gli altri, sapendo che sarà tutelato anche qualora dovesse trovarsi in minoranza. Ogni ordinamento politico contiene infatti le garanzie per la tutela delle minoranze, ossia regole destinate a stabilire fin dove le prerogative della maggioranza possono arrivare e dove invece devono arrestarsi, poiché esiste una soglia invalicabile oltre la quale esistono le ragioni di una pluralità di individui “diversi”, “non uguali”, che non si riconoscono nella maggioranza.
Nella realtà è molto frequente l’inclinazione della maggioranza a tollerare con difficoltà queste diversità e a tentare di imporre alle minoranze uniformità di comportamenti. più si va avanti più è facile constatare che la propria particolarità, la propria diversità viene sempre più sacrificata sull’altare di un presunto egualitarismo, che altro non è invece che mera omogeneizzazione, da cui ne deriva il falso mito dell’uni-formalismo come valore superiore e l’affermarsi pericoloso del pensiero unico in luogo del multi-culturalismo, o meglio del pluralismo.
Dentro un sistema politico irrigidito dall’uniformità le minoranze, qualunque esse siano, avranno sempre forti difficoltà sia nel farsi riconoscere che nel far valere i propri diritti. Ed è proprio in tale congiuntura che i cittadini “minoritari” sono legittimati a farsi valere mediante il ricorso alla disobbedienza civile, rifiutandosi di rispettare quelle regole che, per prime, segnano l’accettazione del potere e dell’autorità ad esso collegata.

Prima fra le regole è proprio la ripulsa degli obblighi fiscali.
L’appartenenza consapevole ad una qualsivoglia convivenza civile e politica genera infatti l’impegno ad una contribuzione finanziaria finalizzata a remunerare i servizi offerti alla comunità dei cittadini. In primis: salute, giustizia, sicurezza.
L’autorità significa dunque avere il potere impositivo di sottrarre risorse finanziarie dalle tasche (e quindi dal lavoro) dei cittadini per trasferirle nella disponibilità dell’autorità medesima, che dovrebbe gestirli nell’interesse comune.
L’investitura politica è così diventata un “mandato a tassare” che i cittadini (inconsapevoli?) accordano al governante per farsi manipolare i loro redditi, ossia ricchezza privata, che viene evidentemente percepita dal governante medesimo come nella sua piena disponibilità. La situazione, poi, si è nettamente aggravata in quanto la natura, la struttura e la dimensione delle operazioni finanziarie rendono difficile il distinguo tra tassazione ed estorsione: è notorio che per accorgersi di un furto è necessario avvertire la materialità dell’asportazione, per cui se trascorre un certo lasso di tempo è come se il “furto” non fosse mai avvenuto. Le colossali ruberie di denaro pubblico, gli sprechi, i privilegi rientrano appunto in questa seconda ipotesi, e soltanto da poco i cittadini stanno cominciando a sensibilizzarsi sull’argomento, segno evidente che il confine tra tassazione ed estorsione è stato ampiamente valicato da chi ci governa.
Quando il prelievo e la cattiva amministrazione incidono pesantemente sul tenore di vita dei cittadini, questi hanno il diritto-dovere di ribellarsi, poiché l’autorità politica non è affatto depositaria della sapienza economica come lo sono invece i cittadini stessi dei loro guadagni.
Il problema ovviamente non è negare il potere di tassare a chi governa, bensì discutere la struttura e l’incidenza del potere impositivo , e soprattutto la legittimità di talune imposte.

Prendiamo ad esempio la tassazione degli immobili: Ici, Isi, Imu, Tasi o come cavolo si chiama.
Il godimento di un’abitazione campeggia come prerogativa necessaria tra i diritti di una comunità civile, in quanto la casa, fin dal 1700, è considerato quale completamento immediato e necessario della persona umana. Dunque non la difesa a oltranza della proprietà privata, e nemmeno la sua negazione, bensì la casa come ambito di dignità umana, rientrante sia nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e della Donna che nell’art.47 della Costituzione Italiana.
Per questa semplicissima ragione tassare l’immobile in cui il cittadino abita, la c.d. “prima casa”, è oggettivamente contrario al suo diritto naturale, e di conseguenza ingiusto, poiché il prelievo di denaro dalle sue tasche giustificato quale imposta “sulla ricchezza” in realtà è l’indebito quanto illegale prelievo di denaro su un bene primario.
Come se il cittadino, messi i soldi da parte, vada a comprare il pane e all’uscita del negozio trova l’esattore che gliene strappa un pezzo perché “così vuole lo Stato”.
Non pagare le imposte patrimoniali che colpiscono la casa in cui si abita rappresenta un esemplare esercizio del diritto dei cittadini a resistere pacificamente ad una legge iniqua, negandole efficacia.

Quanto alla questione se il ricorso alla disobbedienza civile costituisca una prerogativa individuale oppure collettiva, si risponde che ciascuna persona, in quanto titolare di diritti naturali indisponibili, è legittimata ad attuare la disobbedienza quando ne sussistano i presupposti. E’ però evidente che laddove sia una pluralità ad attuarla essa riceve nuova linfa e forza ulteriore.
In un determinato momento storico la ribellione pacifica dei cittadini può cambiare il destino di un paese soltanto se essa diventa la bandiera di un gruppo capace di organizzazione e capacità operativa.
L’impressione, solitamente agli occhi dei timorosi, che possa trattarsi di un disordine o instabilità permanente è profondamente sbagliata, poiché i popoli liberi e più ordinati sono proprio quelli che si permettono ogni tanto di ribellarsi, che non temono di impugnare le decisioni dei loro governanti, ma che anzi li costringono a rinegoziare con più solida persuasione l’ordinamento in cui tutti convivono.

La disobbedienza civile consente ai cittadini di evitare l’obbedienza per abitudine o peggio per pigrizia, e quindi di recuperare fiducia attiva e convinta nelle istituzioni, in particolare in quelle che il trascorrere eccessivo del tempo ha reso impermeabili e insensibili, se non intolleranti, a qualunque forma di cambiamento o di semplice dissenso, avvicinandole in modo assai pericoloso a veri e propri regimi di cui ci si deve immediatamente ed assolutamente liberare al più presto.

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