venerdì 18 dicembre 2015

Mini Dossier Openpolis


Dare uno sguardo al dossier Openpolis sull'indice di produttività parlamentare è un po' come guardare la cacca nel vaso subito dopo averla fatta: può cambiare colore o forma, sempre merda resta.

I peggiori della nostra provincia - secondo questo dossier - sono ANTONIO CUOMO e MICHELE RAGOSTA, rispettivamente 623.mo su 630 e 587/630.

In brutta posizione anche SIMONE VALIANTE (357/630) E TINO IANNUZZI (260/630), mentre i "paladini" della nuova politica (5 Stelle) non brillano di sicuro e viaggiano sulla stessa linea dei loro colleghi PD, nuovi compagni di inciucio: SILVIA GIORDANO 208/630; ANGELO TOFALO 218/630; GIROLAMO PISANO 321/630.
L'unico a NON meritare gli schiaffi - anche se non particolarmente brillante - sembra essere il senatore ANDREA CIOFFI (75/315).

MOLTO INQUIETANTE questo passaggio scritto nell'introduzione del Dossier:
"Evidenziamo, o meglio denunciamo, come le nostre valutazioni non possano che essere incomplete a causa dell’opacità che ancora avvolge istituzioni e partiti.
Negli ultimi anni sono stati messi a segno diversi punti a favore della trasparenza. Anche grazie alle richieste di openpolis, oggi i siti web di Camera e Senato pubblicano i dati sulle assenze parlamentari, le dichiarazioni patrimoniali di deputati e senatori, i rendiconti dei gruppi e hanno iniziato un percorso di rilascio delle informazioni attraverso gli opendata.
Purtroppo, il livello di accesso diminuisce fino a cessare del tutto di pari passo al progressivo avvicinarsi ai centri decisionali.
Di ciò che accade nelle Commissioni Parlamentari, cuore del processo legislativo, non è possibile avere notizia
".

NEL CUORE DEL PROCESSO LEGISLATIVO NON VI E' ALCUNA TRASPARENZA.

FONTE: Mini Dossier Openpolis

mercoledì 28 ottobre 2015

Numeri

Mestieri: dopo l'operatore di big data il mestiere che ha avuto il maggior incremento di addetti negli ultimi dieci anni è l'istruttore di ginnastica da spiaggia.

Turismo: Il turismo internazionale cresce in media del 5% anno, più dell'economia mondiale; secondo l'OMT nel 2030 saranno 2 mld le persone che faranno viaggi all'estero

Indice: Il Country Brand Index, ossia l'indice di attrattività di un paese, mette l'Italia al 14.mo posto nel 2014, era prima nel 2004.

Spesa: Lasciando fuori il pacchetto base (volo + hotel) nella spesa del turista medio lo shopping copre il 40% del totale, mentre i biglietti per musei ed eventi non raggiunge il 10%.

Qatar: stanno costruendo una copia della galleria Vittorio Emanuele di Milano, in scala 1:1, che ospiterà tuttii marchi del lusso italiano.

Unesco: l'Italia è prima nella classifica dei siti Unesco patrimonio dell'umanità con 51, pari al 5% del totale mondiale. In seconda posizione la Cina con 47 siti ma è grande trenta volte il nostro paese.

Ritorno: il ritorno di utili commerciali sui siti Unesco rispetto all'Italia è 16:1 per gli Stati Uniti, Francia 4:1, Regno Unito 7:1.

Numeri: l'Italia ha 4 mila musei, 95 mila chiese, 2 mila aree archeologiche. Tra le 160 tipologie di turismo catalogate nel mondo, l'Italia è l'unica a poterne offrire cento.

Turismo: il turismo in Italia vale circa 160 miliardi di euro, copre circa l'11% della forza lavoro.

Eurodisney: quando fu deciso di aprire il parco in Europa erano tre i candidati: Francia, Spagna e Italia, nella zona Italsider di Bagnoli. Ron Disney, parente di Walt, voleva metterla a Bagnoli perchè vicino al mare ed alla città, ma le complicazioni burocratiche, le resistenze e le procedure complesse orientarono Disney verso la Francia, facendo perdere all'Italia circa 36 mila posti di lavoro.

Visitatori: ad oggi i visitatori di Eurodisney sono 15 milioni l'anno, il doppio del Colosseo e dei Musei Vaticani.

venerdì 25 settembre 2015

Match point al museo

 di Eliana De Caro
(Il Sole 24 Ore del 28/06/2015)

Sapete perché il “servizio”, nel tennis, si chiama così? E perché in inglese si dice deuce per dire “parità”? E cosa c’entra love con “zero”? Come si comporta l’arbitro se un pallonetto viene intercettato da un piccione che ne devia la traiettoria?
A queste, e molte altre domande, troverete una risposta in un posto dove gli appassionati di tennis, una volta nella vita, devono andare: il museo di Wimbledon. Varcati i cancelli che portano nel cuore del circuito più prestigioso del mondo, e vinta la tentazione di fare subito incetta di qualunque oggetto e cimelio verde o viola - i colori dei campionati - nel negozio, ecco le scale che introducono nella Storia del tennis.
Il museo ha una struttura classica (teche, reperti, abiti, ricostruzioni ambientate) e il racconto è cronologico, ma non mancano le diavolerie contemporanee, dai sistemi touch screen ai giochi che coinvolgono i visitatori.
Badminton, real tennis e croquet sono gli sport antesignani del tennis, e il volto malinconico di Guillaume Barcellon, costruttore di racchette alla corte di Luigi XV ritratto da Etienne Loys nel 1753, quando il tennis era ormai lo sport praticato dai re di tutta Europa, lascia immaginare accanite partite tra aristocratici. Già due secoli prima, del resto, sembra che Enrico VIII stesse giocando un match mentre Anna Bolena veniva giustiziata. Certo, gli ortodossi sono rapiti dalla coppa del 1877, la Field Cup, il trofeo della prima edizione: inutile dire che quel giorno pioveva, il biglietto d’ingresso costava uno scellino e le 200 persone che lo comprarono finanziarono così l’acquisto del rullo per il prato che si era rotto (questa era la nobile ragione che mosse gli organizzatori a prevedere la competizione).
La stanza vittoriana, epoca in cui il tennis era assai di moda, è una festa per gli occhi, l’ambiente è ricreato con amore per ogni dettaglio. Chi avrà bevuto il tè in quelle tazze con le racchette? O usato le pinzette per prendere il limone e i cucchiaini, sempre a forma di racchetta? Anche il porta toast o il porta sigari, su una tavola riccamente apparecchiata, sono ispirati al tennis. Quando si entra nel Novecento, però, si inizia a fare sul serio. Intanto si capisce perché Suzanne Lenglen era soprannominata “la divina”: una che scendeva in campo in pelliccia. E poi vinceva, vinceva e vinceva, era la più grande del suo tempo, dal 1919 al 1925 non l’ha battuta nessuna. Accanto alla sua ci sono le descrizioni degli altri protagonisti di quegli anni, con gli abiti lunghi e candidi, le strette racchette di legno, gente come René Lacoste, Bill Tilden e più avanti, negli anni Trenta, Fred Perry.
«Nel 2014 abbiamo avuto 92mila visitatori», dice con orgoglio Anna Renton, giovane curatrice del museo. «Sono venuti più di 4.700 italiani; dopo britannici, americani, indiani e australiani sono i più presenti». Renton racconta che le sale sono state inaugurate nel 1977, anno del centenario del torneo, dal duca di Kent e grazie alla donazione di Tom Todd, che mise a disposizione le sue preziose collezioni. «Ovviamente nel tempo si sono arricchite - spiega Anna - perché anche molti giocatori hanno contribuito e tuttora offrono sempre qualcosa. Loro stessi vengono qui. Ricordo quando Nicolas Mahut chiamò John Isner per dirgli “ehi, siamo in un museo”...», conclude con un sorriso. Il riferimento è alla partita più lunga della storia di Wimbledon, durata più di 11 ore tra il 22 e il 24 giugno del 2010, nella prima settimana sul campo 18, e finita 70 a 68 al quinto set per Isner. Le fasi di questa maratona sono ovviamente illustrate in una serie di pannelli, e a far da contraltare c’è un record di 22 secondi: non si è per ora impiegato di meno per coprire il campo centrale nel caso, probabile come ahimè tutti sanno, di pioggia.
Prima di imbattersi nei volti di Mahut e Isner, però, c’è una lunga carrellata di personaggi, abiti, voci e situazioni ben più conosciuti. Siamo agli anni Settanta, Ottanta e Novanta, con Connors, Borg, McEnroe, Edberg fino ad arrivare alle battaglie di Agassi e Sampras, si riconoscono e rivivono momenti per cui si è sobbalzati su una sedia, gridato assieme agli amici, tifato pensando “vorrei essere lì”. C’è un touch screen con una serie di video che mostrano gli scambi e i punti più belli di tante sfide: Chris Evert contro Martina Navratilova, Agassi contro Sampras appunto, Becker contro Edberg... Difficile staccarsi, davvero. Non è come stare davanti a un computer a navigare e a cercare le stesse immagini, come qualcuno potrebbe obiettare: sei a Wimbledon, l’acme del tennis, immerso nella qualità e nella ricercatezza. La stessa ricercatezza che ti fa scegliere per gioco, tra diverse racchette di legno apparentemente simili disposte in una ruota, e scoprire di aver beccato la Dunlop Maxply midsize di McEnroe. O la stessa qualità che, su un fronte più serio, mette a disposizione 8.500 pubblicazioni tra libri, giornali, video e dvd sul tennis mondiale. Basta prendere un appuntamento con Audrey Snell, l’assistant librarian, dietro la porta a vetri che conduce nella biblioteca: «È un posto unico, non ce ne sono altri così», dice con aria fiera, nel silenzio sacrale tipico di quelle stanze. «Vengono studenti, giornalisti, ragazzi che fanno ricerche, autori di libri. Qui si preserva la memoria del tennis».
E Federer, Djokovic, Nadal, Venus e Serena Williams, Sharapova sono già storia, se è vero che il museo si chiude con le loro imprese nell’ultimo quindicennio. Molti di loro, compresa la Kvitova dopo il successo dello scorso anno, hanno donato il loro completo (ma si sosta inevitabilmente più a lungo davanti alla stanza dedicata a Mac, dove c’è lui - John - riprodotto a figura intera assieme a una quantità di memorabilia, e ci si ricorda di quando proprio a Wimbledon nell’81 urlò all’arbitro «You cannot be serious!»). Prima di uscire, colpisce una frase di Rafael Nadal, pronunciata nel 2011: «Se non perdi, non puoi goderti le vittorie». Quell’anno era il campione in carica, fu sconfitto in finale da Djokovic.

P.S. E allora: “Servizio” era chiamato così perché qualche secolo fa gli aristocratici, bontà loro, si facevano lanciare la palla dai servitori all’inizio di una partita. Deuce arriva dal francese à deux, a due: sul 40 pari si è a due punti dalla vittoria. E anche love è di derivazione parigina. È una stortura dell’œuf, l’uovo, la cui forma è simile allo zero. Infine, il malaugurato caso del piccione che devia il pallonetto (proprio a Wimbledon, un evento improbabile grazie al falco che vigila sui campi per tenere lontani i fastidiosi volatili): l’arbitro senza dubbio fa ripetere il punto perché è intervenuta una circostanza estranea alle parti in gioco. Sic!

sabato 29 agosto 2015

Breve storia del proibizionismo in Italia


La proposta di 218 parlamentari per un diverso assetto legislativo della cannabis ha suscitato una grandinata di dichiarazioni di politici e di esperti.
Per il cittadino non è facile orientarsi di fronte a tante inconciliabili posizioni. Può forse aiutarlo ricostruire la storia della legislazione che ha proibito la cannabis in Italia, mostrando che non è nata per arginare un abuso e quando l'abuso è arrivato la legge che lo proibiva poco ha potuto.
La chiave è racchiusa in un fascicolo della Direzione Generale della Sanità pubblica del Ministero degli Interni, conservato all'Archivio di Stato. Tutto iniziò con la risposta della Direzione al console greco in data 21 giugno 1906, se in Italia la cannabis potesse essere importata e venduta: la cannabis e i suoi derivati "[...] debbono essere considerate sostanze medicamentose dotate, per la loro azione fisiologica, di proprietà venefiche e pertanto, in base alle leggi vigenti, debbono essere vendute in dose e forma di medicinale dai farmacisti, che devono conservarle in appositi armadi [...]".
Il problema era gestire il complicato caso che vedeva il porto di Brindisi fare da tramite nel contrabbando di hashish tra la Grecia, paese produttore, e l’Egitto paese consumatore ma rigidamente proibizionista.
Nella nota riservata del novembre 1908 inviata dal direttore generale della pubblica sicurezza al suo omologo della sanità pubblica si illustrano le doglianze delle autorità anglo-egiziane per il contrabbando di hashish ad opera di marinai italiani imbarcati sui piroscafi Isis e Osiris della Peninsular & Oriental Company, la compagnia di navigazione inglese che faceva rotta tra il porto di Brindisi e l'Egitto.
Le verifiche svolte dal Prefetto di Lecce avevano acclarato che "[...] effettivamente Brindisi è il centro più importante del commercio dell'hashish e poiché questo producesi in Grecia, e Brindisi è non solo il porto più vicino alla Grecia ma altresì quello dal quale parte il maggior numero di Piroscafi verso Alessandria d'Egitto.
Dell'importazione dalla Grecia dell'hashish si occupa largamente in Brindisi con lauti guadagni la ditta Valori Ercole, suddito turco, e ve ne interessa pure il suddito greco Prasso Dimitri, da tempo residente nel Regno [...] Da Brindisi l'importazione per Alessandria d'Egitto è fatta per mezzo del basso personale di bordo dei piroscafi diretti a quella volta, senza distinzione fra legni appartenenti a società di navigazione italiana e straniere [...]".
Nella nota ci si chiedeva di possibili conseguenze sulla salute pubblica, ancorché "[...] quanto fin qui risulta il consumo dell'hashish non ha fortunatamente alcuna diffusione nel Regno[...]".
Gli eventi si complicano nel successivo mese di maggio, quando l'agente della Peninsular a Brindisi scriveva ad un non meglio precisato onorevole, da identificarsi probabilmente in Pietro Chimienti il cui collegio era proprio quello di Brindisi, che riguardo all'affare dell'hashish la cosa si è fatta di colpo molto seria. L'agente spiegava che le loro navi Isis e Osiris, in servizio tra Brindisi e l'Egitto, ogni tre mesi andavano nel bacino galleggiante della Compagnia del Canale di Suez a Port Said per pulire la carena. Ebbene, "[...] il piroscafo Isis fu pulito pochi giorni or sono ed al suo arrivo ieri il comandante m'informò che a lavoro finito, e quindi il battello aveva già abbandonato il dock, la dogana egiziana trovò 94 pezzi di hashish pari a circa 270 libbre (più di 120 chilogrammi). Con questa scoperta la Compagnia del canale si è trovata in una situazione parecchio imbarazzante e difficile con la dogana egiziana [...]".
L'onorevole Chimient, in un intervento alla Camera, denunciava la situazione per l'igiene ed il buon nome dell'Italia, aggiungendo che la diversione attraverso Brindisi era causata dal trattato bilaterale che impediva l'esportazione della cannabis dalla Grecia all'Egitto. La proposta di Chimienti era di proibirla per misura sanitaria, ovvero modificare al riguardo il repertorio doganale rimandandola, cioè, sotto la voce "tabacco".
Il 19 agosto 1909 il Ministro degli Esteri Tittoni scriveva allarmato al Presidente del Consiglio Giolitti, sottolineando il grave pericolo insito nella minaccia della compagnia di evitare lo scalo di Brindisi. Nella missiva troviamo forse la prima specifica proposta di legislazione antiproibizionista: "[...] Ti prego di voler considerare se non sia il caso di presentare al parlamento un progetto di legge che vieti  - perché pernicioso alla salute pubblica - il commercio dell'hashish [...]".
Giolitti sapeva che non era applicabile all'hashish un divieto di importazione in quanto medicamento, ma vedeva applicabile ai suoi contrabbandieri il disposto dell'art. 90 della Legge di Pubblica Sicurezza, permettendone quindi l'espulsione. >per motivare il pericolo per l'ordine pubblico, Giolitti attingeva alle informazioni ricevute dal Chimienti, secondo il quale il proseguimento del contrabbando avrebbe indotto la Peninsular a sostituire gli equipaggi italiani con quelli indiani, provocando disoccupazione e perdita di salari: abbastanza per istigare disordini. Giolitti non tralasciava "[...] la giusta apprensione causata dalla continua presenza in Italia di così rilevanti quantità di velenoso narcotico [...]".
La conseguenza fu l'espulsione dal regno dei due commercianti in oggetto , ma di questo, sorprendentemente, il Chimienti si doleva in una su amissiva a Giolittinella quale rilevava l'illegittimità dell'atto. avvertendo che l'hashish cominciava ad essere fumato a Brindisi, il Chimienti sollecitava un radicale provvedimento di proibizione di importazione in Italia del "pericolosissimo veleno" in quanto nocivo alla salute.
Iniziava così un contenzioso legale con sospensione del provvedimento e ritorno del valaori Brindisi. Intanto, per dispositivo del Ministero delle Finanze, il "prodotto hashish" che prima era ammesso alla libera importazione sotto la voce "medicamenti" era assimilato al sugo di tabacco del quale "[...] la libera importazione è proibita [...]".
Così la soluzione fu di carattere merceologico e consistè nell'omologazione dell'hashish ad un potentissimo tossico quale il succo di tabacco.
la cannabis acquisiva una sua speciale legislazione non perchè il suo consumo si fosse diffuso in maniera pericolosa ma perchè si voleva evitare che alcuni porti fossero luoghi di transito della sostanza.
Si spiega così perchè il controllo sulla cannabis fosse tra le proposte contenute tra le istruzioni che il Ministero degli Esteri invia all'ambasciatore a Washington, in preparazione della Conferenza dell'Aia del 1912. "[...] Questo ministero desidera ancora che la prossima conferenza internazionale abbia ad occuparsi anche del traffico della canapa indiana e dell'hashish [...] Il nostro paese ha un interesse speciale a che la questione dell'hashish sia definita in via internazionale, non perchè l'Italia sia produttore o consumatore di quella sostanza ma perchè poco scrupolosi speculatori nazionali ed esteri hanno scelto il territorio italiano come luogo di deposito e di concentrazione dell'hashish per poi fare la riesportazione in contrabbando nei paesi ove il traffico di tale sostanza è vietato [...]".
L'Italia trovo il solo sostegno degli Stati Uniti e pertanto il punto non fu discusso, sebbene si ritenesse utile un approfondimento scientifico del problema.
Nel 1923 la cannabis ed i suoi derivati furono inclusi tra le sostanze controllate dalla prima legge italiana sugli stupefacenti, e ancora nel 1938 si può leggere negli Annali di Igiene che "[...] la sanità fondamentale del popolo italiano viene dimostrata dal fatto che, sebbene in Italia la canapa venga largamente coltivata, mai è sorto il problema dell'uso di essa come sostanza voluttuaria. Invece nell'America settentrionale, nell'Africa meridionale e nell'Oriente questo vizio preoccupa vivamente [...]".
Tuttavia, né la pretesa sanità fondamentale né la legge proteggerà il popolo italiano dalla cannabis quando trent'anni dopo gli spinelli cominceranno a circolare. Lo spirito del tempo era mutato e da allora la cannabis è considerata - da una consistente fetta della società - uno strumento ricreativo di scarso peso tossicologico. Non è male che si cominci a prenderne atto.


Fonte: Il Sole 24 ore, 26 luglio 2015 pg 27.

domenica 24 maggio 2015

Youth


Entrato di diritto nel frullatore holliwoodiano, testimoniato dal recente oscar e dal conseguente cast stellare che partecipa a "Youth - La Giovinezza", Paolo Sorrentino ha probabilmente "deciso" che ormai può permettersi di dire tutto nel modo che più gli aggrada, fregandosene altamente di trame o canovacci di sorta. Ma soprattutto distillando pillole di saggezza totalmente scollegate dal contesto, forse in preda a un delirio di onnipotenza col quale ormai è convinto di poter discettare sui massimi sistemi così come sui problemi cosmogonici dell'umanità facendo pronunciare frasi e aforismi inseriti in maniera poco congrua al primo che capita davanti all'obiettivo: un ragazzino, miss universo, l'attore in crisi, gli stessi protagonisti Keitel e Caine.
I due restano grandi attori che cercano in ogni modo di mantenere un filo man mano sempre più sottile, ma anche il ruolo delle musiche scelte non fa da contorno e recita - o almeno tenta - un ruolo a tratti debordante che a me ha dato persino fastidio in alcuni passaggi.
Non è solo per questo che il film non mi è piaciuto, ma anche per il "messaggio" che intende far passare, almeno nella chiave di lettura che io gli ho dato.
Se Caine rappresenta il direttore d'orchestra in pensione che rifugge qualunque progettualità, abbandonando ogni desiderio in favore dell'apatia assoluta, figlia naturale di un disincanto quasi cinico, dall'altra Keitel è il regista sul viale del tramonto che insegue i suoi sogni, ancora preda di una sottile vanità che - inutile negarlo - alberga in ciascuno di noi nella convinzione che si abbia sempre qualcosa da dire, mancando cioè l'acume strategico di tacere quando è indispensabile. Un po' come il grande campione che riufiutando il declino sbaglia l'attimo di uscita dall'agone, rimanendo travolto dal suo alter ego ormai ridicolizzato.
Ebbene, se Keitel rappresenta il desiderio viziato dalla vanità e Caine il cinico disilluso che ha sacrificato amori e famiglia in nome di quella stessa vanagloria, il primo muore suicida mentre il secondo dirige davanti alla regina d'inghilterra.
Cos'altro può trasmettere dunque questo film, se non il messaggio per me assolutamente negativo di affrontare la vita in maniera egocentrica, cinica e disillusa a fronte di una romantica visione sognatrice, che ancora desidera e vuole progettare?
La disillusione vince sul desiderio. E' questa la mia personalissima interpretazione di sintesi.
Ho visto tutti i film di Paolo Sorrentino, e credo che il flow irripetibile che mixa in maniera quasi divina fotografia, musica, trama, luce sui personaggi e un pizzico di surrealtà necessaria in ogni passione visionaria, il regista napoletano l'abbia raggiunto con "This must be the place", ad oggi un film assolutamente irripetibile.

martedì 17 marzo 2015

Marchette politiche

Qui di seguito un photoshop delle due pagine pubblicate ieri dal quotidiano locale di Salerno "la Città", dove a pagina 3 un grande articolo di cronaca politica, e qualche pagina dopo (pg.10) il protagonista centrale dello stesso articolo in bella posa per una pubblicità elettorale a mezza pagina, guarda caso in prossimità delle prossime elezioni regionali.
Chiamasi: marchetta.
La variante è detta "pompino": un/una giornalista intervista il politico "molto vicino" al giornale, solitamente finanziatore occulto.
"Se ti addormenti col culo che ti prude, ti svegli col dito che puzza" (cit.)

 

venerdì 13 marzo 2015

Gay / Lesbo: si nasce o si diventa?

Alcuni accadimenti molto, molto inquietanti si stanno avverando.
Dapprima lo sdoganamento del porno, avvenuto (ricordiamolo) anche con l'avvento programmato di attori e attrici pornografici successivamente diventati protagonisti di fiction, talk-show etc etc, in tal modo trasformati in star da invidiare ed imitare, fenomeno ormai ampiamente diffuso anche in ambito web e fruibile senza alcun problema da tutte (tutte) le fasce d'età. Oggi, ma già ieri, un bambino di 10 anni entra in un sito porno e vede filmati di persone che si accoppiano in gruppo, indifferentemente uomini e donne, anche con animali, magari con abbondanti effluvi corporali, secondo categorie ormai note stilate dagli stessi siti pornografici: Amateur, Anal, Asian, Ass, Ass to Mouth, BBW, Big Ass, Big butt, Big tits, Bisexual, Blonde, Blowjob, BoB, Brunette, Casting, College, Compilation, Couples, Creampie, Cumshots, Cunnilingus, Dildos/Toys, DP, Ebony, European, Facial, Fantasy, Farting, Female Friendly, Fetish, Fingering, Funny, Gay, German, Gonzo, Granny, Hairy, Handjob, HD, Hentai, Homemade, Instructional, Interracial, Kissing, Latina, Lesbian, Massage, Masturbation, Mature, Milf, Orgy, Panties, Pantyhose, Pis, POV, Publi, Pupping, Redhea, Rimming, Romantic, Shaved, Shemale, Solo girl, Solo Male, Scat, Squirting, Straight Sex, Swallow, Teen, Threesome, Vintage, Voyeur, Webcam, Young/Old, 3D.
Chiedo venia ai praticanti di qualche specialità non volontariamente omessa.
Una bella varietà zoofila che senza alcun dubbio crea confusione all'utente/voyeur/bambino-a, rendendoli incapaci di riconoscere e discernere una sessualità normale da una pervertita, fino ad arrivare all'ormai arci-noto nonché must a livello di perversioni scat/pis/fetish "Two girls, one cup", diventato virale in tutta la rete.
Allo sdoganamento pornografico, poco dopo è seguito lo sdoganamento dell'omosessualità, il cosiddetto "fenomeno gender": assistiamo "impotenti" alla diffusione spasmodico-compulsiva di immagini e filmati gay-lesbo da parte dei mainstream nazionali e internazionali (in primis Tv, cinema e pubblicità). Anche qui l'obiettivo è sempre lo stesso: creare confusione "gender" nelle nuove generazioni in erba, quelle che stanno avendo o ancora non hanno avuto alcuno sviluppo ormonale.
Siamo al punto che parlare male dei gay/lesbiche in pubblico può portare al "reato di omofobia", già allo studio di illustri giuristi.
Non da ultimo, il recente caso degli stilisti Dolce & Gabbana, omosessuali dichiarati, rei di aver parlato male di persone con i loro stessi gusti, cui è seguito un attacco feroce da parte in primis del notissimo cantante pop Elton John, che ha invitato le eliìte di tutto il mondo dello spettacolo a boicottare la nota azienda di abbigliamento.
Siamo di fronte, come giustamente sottolinea il giovane filosofo Diego Fusaro, in presenza di un vero e proprio attacco alla sessualità ed alla creazione sistemica e scientifica del caos-gender a livello adolescenziale, con la confusione dei ruoli e dei sessi. Rimando in proposito a questo articolo per un'ottima riflessione dello stesso Fusaro sulla vicenda.
Terzo, pericolosissimo, il tentativo di sdoganamento della pedofilia, di cui allego un solo link.

Arriviamo così al motivo di questo post.
Uno studio "approfondito e ragionevole" (virgolette obbligatorie) spiegherebbe al di là di ogni ragionevole dubbio che l'omosessualità non dipende da fattori genetici bensì ambientali.
In buona sostanza, alla famosa domanda: gay si nasce o si diventa, questa ricerca risponde senza mezzi termini che gay non si nasce ma si diventa.
Mi riprometto di approfondire questo argomento, vastissimo e complicato, ma di estrema attualità e importanza per una serie numerosa di ragioni. Chuido il mio commento adesso, 13 marzo 2015 ore 17:47, con l'articolo in questione:
"Chi promuove l’omosessualismo (e l’ideologia gender) fa di tutto per sdoganare l’idea che l’omosessaulità sia “naturale”. Corrispondenza Romana ci porge risposte chiare ed inequivocabili alla domanda se l’omosessualità sia una questione genetica o no.
Gay si nasce o si diventa? La fatidica domanda, riguardo l’esistenza di un presunto gene gay innato, ogni tanto ritorna, sebbene il quesito abbia, da tempo, ricevuto ampie e inequivocabili risposte. Recentemente la questione è stata portata nuovamente alla ribalta da una organizzazione di ex gay, americana, chiamata PFOX, la quale ha promosso a Richmond, capitale dello Stato della Virginia, una ampia campagna pubblicitaria per far conoscere i reali dati scientifici riguardo l’omosessualità.
In particolare, tali dati riportano diversi casi di gemelli omozigoti, quindi perfettamente identici, che tuttavia differiscono per tendenze sessuali. Esistono almeno otto importanti studi scientifici condotti su gemelli identici in Australia, Stati Uniti, e in Scandinavia, durante gli ultimi due decenni che mostrano come gli omosessuali non sono nati omosessuali.
Il dott. Neil Whitehead, che dopo avere prestato servizio per 24 anni come ricercatore scientifico per il governo della Nuova Zelanda, e aver lavorato alle Nazioni Unite e l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, oggi ricopre il ruolo di consulente per alcune università giapponesi, sottolinea il ruolo irrilevante della genetica nella scelta dell’orientamento sessuale, affermando: «al meglio la genetica è un fattore secondario». I gemelli monozigoti derivano da una singola cellula uovo fecondata, ciò significa che essi sono nutriti in condizioni prenatali uguali e condividono il medesimo patrimonio genetico.
Da qui consegue che, se l’omosessualità fosse una tendenza innata, stabilita dai geni, ci si aspetterebbe che tale attrazione fosse sempre identica nei gemelli monozigoti. Come nota infatti il dott. Whitehead: «dal momento che hanno DNA identici, dovrebbero identici al 100%». Tale ipotesi è però smentita dalla realtà dei fatti che attestano che «se un gemello identico ha attrazione per lo stesso sesso la possibilità che il co-gemello abbia la stessa attrazione è solo di circa il 11% per gli uomini e del 14% per le donne». Il dott. Whitehead conclude dunque escludendo categoricamente che l’omosessualità possa dipendere da fattori genetici: «nessuno nasce gay. (…) Le cose predominanti che creano l’omosessualità in un gemello identico e non negli altri devono essere fattori post-parto».
Secondo lo specialista l’attrazione per lo stesso sesso (SSA) è determinata da «fattori non condivisi», cose che accadono ad un gemello, ma non l’altro, o da una differente reazione personale ad un specifico evento da parte di uno solo dei gemelli. Pornografia, abusi sessuali, particolare ambiente familiare o scolastico sono tutti elementi che possono influenzare in modo diverso l’uno rispetto all’altro. Un gemello potrebbe non essere in grado di interagire socialmente come l’altro gemello, provocandosi una sensazione di solitudine, che potrebbe poi portare alla necessità di essere accettato da un gruppo di persone, e in alcuni casi, tale gruppo diventano le comunità LGBT. Secondo il dott. Whitehead infatti, «queste risposte individuali e idiosincratiche a eventi casuali e ai fattori ambientali comuni predominano».
Il primo studio approfondito su gemelli monozigoti è stato condotto in Australia nel 1991, seguito da un altro grande studio americano nel 1997. Oggi, lo strumento principale per la ricerca biomedica, secondo lo specialista, sono i registri nazionali sui gemelli: «i registri dei gemelli sono la base dei moderni studi sui gemelli. Ora sono molto grandi, ed esistono in molti paesi. Al momento è in progettazione un gigantesco registro europeo del quale faranno parte 600.000 membri, ma uno dei più grandi attualmente in uso si trova in Australia, con più di 25.000 gemelli registrati».
Nel 2002 la coppia di sociologi americani Peter Bearman e Hannah Brueckner ha pubblicato uno studio che ha coinvolto 5.552 coppie di gemelli degli Stati Uniti, mettendo in evidenza come l’attrazione per persone dello stesso sesso tra gemelli identici era comune solo al 7,7% per i maschi e al 5,3% per le femmine. La stessa ricerca ha preso in esame anche il cambiamento di orientamento sessuale durante il corso della vita, osservando come la maggior parte di questi cambiamenti, avvenuti per via “naturale” piuttosto che terapeutica, sono indirizzati verso una esclusiva eterosessualità, con il 3% della popolazione eterosessuale che afferma di essere stata in passato anche bisessuale o omosessuale. Alla fine tali dati hanno fatto emergere un dato curioso per il quale il numero delle persone che hanno cambiato il loro orientamento sessuale verso una totale eterosessualità risulta più alto dell’attuale numero di bisessuali e omosessuali messi insieme. In altre parole, conclude Whitehead, «gli ex gay superano per numero gli attuali gay».
Ancora una volta la realtà sbatte la porta in faccia all’ideologia. La forsennata ed tendenziosa ricerca degli attivisti LGBTQ riguardo l’esistenza di un agognato gene gay, che attesterebbe la normalità dell’omosessualità si deve, infatti, bruscamente arrestare davanti agli inoppugnabili dati concreti che certificano chiaramente come l’omosessualità non ha nulla di genetico e naturale. Più che di “gene gay” sarebbe corretto parlare di “virus gay”; se nessuno nasce infatti con il gene dell’omosessualità tutti, e in particolare le giovani generazioni, sono a rischio contaminazione dell’ideologia del gender imposta come diktat etico dal mainstream culturale dominante
".


martedì 10 marzo 2015

Sulla disobbedienza civile

Un sistema politico è tanto più democratico:
- quando interroga frequentemente i cittadini sulle decisioni importanti da prendere;
- quando i titolari del potere ruotano con frequenza.

Chi governa, sia in modo legittimo che illegittimo, tende in ogni tempo ed in ogni luogo a non cederlo più: si tratta di un comportamento istintivo analogo a quello che spinge ogni uomo a conservare una rendita di posizione, spesso anche a danno di altri. Coloro i quali invece godono dei vantaggi del potere, cercano di giustificare il loro monopolio dell’autorità con diversi argomenti: che il lungo esercizio di responsabilità del comando accresce le competenze; che eliminare gli esperti rischia di mettere al comando persone inesperte.
L’esperienza storica insegna invece che una lunga, ininterrotta permanenza al potere di persone o formazioni politiche sempre uguali produce corruzione, arroganza degli amministratori, omertà clientelare, ineguaglianza e servitù dei cittadini.
Gli espedienti con i quali chi comanda riesce abitualmente a conservare e consolidare il potere, come fosse un bene privato, riguardano: distribuzione di favori leciti e illeciti finalizzata alla costruzione di un sistema di elettori costituito da “protetti e protettori”; uso spregiudicato dei mezzi d’informazione per svalutare-isolare-zittire i pretendenti al ricambio anche attraverso la manipolazione di informazioni decisive; utilizzo strumentale dei quozienti per attribuire a maggioranze relative “premi” così da trasformarle in maggioranze assolute.
Come devono comportarsi i cittadini quando coloro che governano rispettano solo formalmente la Costituzione e le leggi vigenti mentre in realtà le utilizzano per consolidare e prolungare la loro permanenza al potere?
In tutti gli ordinamenti liberi – anche se alle volte non costituzionalmente scritto - viene generalmente riconosciuto il diritto dei cittadini a resistere ad una costrizione illegittima.

Nel caso di un “colpo di stato” il “diritto di resistenza” consente ai cittadini anche l’uso della violenza, poiché contro una esplicita oppure mascherata sospensione dell’ordine costituzionale è lecito l’uso della forza.
Diverso il caso nel quale, come anzidetto, l’illecito comportamento non è formale, ossia apparentemente interno all’alveo costituzionale, ma sostanzialmente fuori da quest’alveo.
Per prima cosa va detto che un uomo libero non deve rassegnarsi a sopportarlo: sacrificare la propria dignità a un presunto dovere di sopportazione delle angherie altrui per tutelare “l’ordine sociale” o “il bene supremo della pace” è una scelta foriera di ulteriori e sempre più gravi ingiustizie.
Esclusa la possibilità di ricorrere all’uso della forza, non trattandosi di un colpo di mano, restano da individuare e percorrere misure pacifiche in grado di destabilizzare il potere costituito, in modo da costringere il tiranno mascherato a ripristinare anche la legalità sostanziale, non solo quella formale.
Fin dal secolo scorso queste misure sono state riassunte e individuate nella c.d. “disobbedienza civile”.

Il vocabolo “disobbedienza” indica un comportamento indirizzato a disattendere degli obblighi ai quali “formalmente” bisognerebbe ottemperare.
Tale comportamento non contesta la procedura con cui l’obbligo è stato stabilito bensì il contenuto dell’obbligo stesso. Non si contestano dunque le procedure istituzionali, e quindi le istituzioni in sé, ma si vuol far capire, contestandone esclusivamente il contenuto, che l’obbedienza passiva non è virtù di uomini liberi, e che quando le istituzioni – per loro imperfezione intrinseca o per disonestà di chi le comanda – non garantiscono i diritti dei cittadini diviene un dovere morale non obbedire.
Mostrare quindi a chi comanda la concreta possibilità di perdere il potere per effetto di una rivolta dei cittadini.
Va infatti qui specificato che “demo-crazia” è potere del popolo, distinto cioè da chi governa il popolo medesimo, per cui quando il governo opprime il suo popolo è dovere morale disobbedire e insorgere, con la forza nei casi estremi, con mezzi pacifici negli altri. Il patto tra cittadini e governo, se pur sottoscritto “liberamente”, non può e non deve produrre effetti imprevisti o addirittura perversi senza veder inficiata la propria validità ed efficacia.
Da qui, la “disobbedienza” come strumento pacifico di sollecito al cambiamento di regole ingiuste.
Con l’aggettivazione “civile, poi, vengono in luce due condizioni: la prima è il carattere non aggressivo, poiché civile è nettamente distinto sia da “militare” che da “incivile”; la seconda che l’azione di disobbedienza è collocata nella sfera delle prerogative del cittadino: ciascun cittadino ha infatti il diritto di partecipare alla statuizione degli obblighi giuridici che lo riguardano.
La coesistenza politica non può più essere basata su patti di fedeltà o giuramenti a vita, eterni, ma su contratti a tempo determinato e destinati ad essere rinegoziati oppure a sciogliersi svincolando i contraenti. Questo genera un senso comune molto forte in quanto alla base del rapporto vi è la libertà di scelta: stare insieme oppure no.
La possibilità di scegliere è il cardine della democrazia; viceversa, se non c’è scelta non vi è democrazia.
Si tratta di una prerogativa inalienabile di ciascun individuo quando accetta la volontà della maggioranza scegliendo di convivere con gli altri, sapendo che sarà tutelato anche qualora dovesse trovarsi in minoranza. Ogni ordinamento politico contiene infatti le garanzie per la tutela delle minoranze, ossia regole destinate a stabilire fin dove le prerogative della maggioranza possono arrivare e dove invece devono arrestarsi, poiché esiste una soglia invalicabile oltre la quale esistono le ragioni di una pluralità di individui “diversi”, “non uguali”, che non si riconoscono nella maggioranza.
Nella realtà è molto frequente l’inclinazione della maggioranza a tollerare con difficoltà queste diversità e a tentare di imporre alle minoranze uniformità di comportamenti. più si va avanti più è facile constatare che la propria particolarità, la propria diversità viene sempre più sacrificata sull’altare di un presunto egualitarismo, che altro non è invece che mera omogeneizzazione, da cui ne deriva il falso mito dell’uni-formalismo come valore superiore e l’affermarsi pericoloso del pensiero unico in luogo del multi-culturalismo, o meglio del pluralismo.
Dentro un sistema politico irrigidito dall’uniformità le minoranze, qualunque esse siano, avranno sempre forti difficoltà sia nel farsi riconoscere che nel far valere i propri diritti. Ed è proprio in tale congiuntura che i cittadini “minoritari” sono legittimati a farsi valere mediante il ricorso alla disobbedienza civile, rifiutandosi di rispettare quelle regole che, per prime, segnano l’accettazione del potere e dell’autorità ad esso collegata.

Prima fra le regole è proprio la ripulsa degli obblighi fiscali.
L’appartenenza consapevole ad una qualsivoglia convivenza civile e politica genera infatti l’impegno ad una contribuzione finanziaria finalizzata a remunerare i servizi offerti alla comunità dei cittadini. In primis: salute, giustizia, sicurezza.
L’autorità significa dunque avere il potere impositivo di sottrarre risorse finanziarie dalle tasche (e quindi dal lavoro) dei cittadini per trasferirle nella disponibilità dell’autorità medesima, che dovrebbe gestirli nell’interesse comune.
L’investitura politica è così diventata un “mandato a tassare” che i cittadini (inconsapevoli?) accordano al governante per farsi manipolare i loro redditi, ossia ricchezza privata, che viene evidentemente percepita dal governante medesimo come nella sua piena disponibilità. La situazione, poi, si è nettamente aggravata in quanto la natura, la struttura e la dimensione delle operazioni finanziarie rendono difficile il distinguo tra tassazione ed estorsione: è notorio che per accorgersi di un furto è necessario avvertire la materialità dell’asportazione, per cui se trascorre un certo lasso di tempo è come se il “furto” non fosse mai avvenuto. Le colossali ruberie di denaro pubblico, gli sprechi, i privilegi rientrano appunto in questa seconda ipotesi, e soltanto da poco i cittadini stanno cominciando a sensibilizzarsi sull’argomento, segno evidente che il confine tra tassazione ed estorsione è stato ampiamente valicato da chi ci governa.
Quando il prelievo e la cattiva amministrazione incidono pesantemente sul tenore di vita dei cittadini, questi hanno il diritto-dovere di ribellarsi, poiché l’autorità politica non è affatto depositaria della sapienza economica come lo sono invece i cittadini stessi dei loro guadagni.
Il problema ovviamente non è negare il potere di tassare a chi governa, bensì discutere la struttura e l’incidenza del potere impositivo , e soprattutto la legittimità di talune imposte.

Prendiamo ad esempio la tassazione degli immobili: Ici, Isi, Imu, Tasi o come cavolo si chiama.
Il godimento di un’abitazione campeggia come prerogativa necessaria tra i diritti di una comunità civile, in quanto la casa, fin dal 1700, è considerato quale completamento immediato e necessario della persona umana. Dunque non la difesa a oltranza della proprietà privata, e nemmeno la sua negazione, bensì la casa come ambito di dignità umana, rientrante sia nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo e della Donna che nell’art.47 della Costituzione Italiana.
Per questa semplicissima ragione tassare l’immobile in cui il cittadino abita, la c.d. “prima casa”, è oggettivamente contrario al suo diritto naturale, e di conseguenza ingiusto, poiché il prelievo di denaro dalle sue tasche giustificato quale imposta “sulla ricchezza” in realtà è l’indebito quanto illegale prelievo di denaro su un bene primario.
Come se il cittadino, messi i soldi da parte, vada a comprare il pane e all’uscita del negozio trova l’esattore che gliene strappa un pezzo perché “così vuole lo Stato”.
Non pagare le imposte patrimoniali che colpiscono la casa in cui si abita rappresenta un esemplare esercizio del diritto dei cittadini a resistere pacificamente ad una legge iniqua, negandole efficacia.

Quanto alla questione se il ricorso alla disobbedienza civile costituisca una prerogativa individuale oppure collettiva, si risponde che ciascuna persona, in quanto titolare di diritti naturali indisponibili, è legittimata ad attuare la disobbedienza quando ne sussistano i presupposti. E’ però evidente che laddove sia una pluralità ad attuarla essa riceve nuova linfa e forza ulteriore.
In un determinato momento storico la ribellione pacifica dei cittadini può cambiare il destino di un paese soltanto se essa diventa la bandiera di un gruppo capace di organizzazione e capacità operativa.
L’impressione, solitamente agli occhi dei timorosi, che possa trattarsi di un disordine o instabilità permanente è profondamente sbagliata, poiché i popoli liberi e più ordinati sono proprio quelli che si permettono ogni tanto di ribellarsi, che non temono di impugnare le decisioni dei loro governanti, ma che anzi li costringono a rinegoziare con più solida persuasione l’ordinamento in cui tutti convivono.

La disobbedienza civile consente ai cittadini di evitare l’obbedienza per abitudine o peggio per pigrizia, e quindi di recuperare fiducia attiva e convinta nelle istituzioni, in particolare in quelle che il trascorrere eccessivo del tempo ha reso impermeabili e insensibili, se non intolleranti, a qualunque forma di cambiamento o di semplice dissenso, avvicinandole in modo assai pericoloso a veri e propri regimi di cui ci si deve immediatamente ed assolutamente liberare al più presto.